Un architetto, non dovrebbe essere uno scrittore, ne un critico, ne uno storico, scrivendo su un opera di architettura sta facendo una operazione che non gli appartiene. Suo campo è lo spazio non la parola. Dallo spazio trae il suo interesse. Perché quantunque non possa e non debba fare poesia, ne retorica, ne erudizione e quantunque i suoi scritti siano innocenti, destrutturati e non controllati, può senza dubbio dare una visione dall’interno, dalla problematica della creazione degli spazi: come progettarli e come costruirli. Perciò desidero dichiarare che ciò che scriverò è solo la mia visione personale e quindi è come dire assolutamente parziale ed incompleta.
Scrivere sulla Cassa Generale di Granada dell’architetto Alberto Campo Baeza, poi, ha un ulteriore problema: l’intensità di quest’opera toglie il respiro. Una volta ancora, l’autore dimostra la sua capacità di realizzare idee che sono forme e forme che sono idee: perseguire questo fine in tutti i modi anche se dovesse significare il sacrificio di altre componenti progettuali. Questo è il suo coraggio e la sua scommessa.
Trattare il tema dello spazio architettonico è
sempre complicato. Come parlare di qualcosa che non si vede? Si deve raccontare attraverso della materia che ne è complemento? O del suo corpo geometrico? O della struttura? O della luce? O dell’idea? Senza dubbio attraverso tutto questo, e, soprattutto, tramite le loro relazioni.
Una di queste relazioni è partire da una massa piena e scavarla con spazi che si sovrappongono ed incrociano tra loro, ma un’altra può essere anche il processo contrario: partire da un unico spazio e collocare materia capace di dividerlo e tenderlo. Sono due modi di rapportarsi tra pieno e vuoto, tra occupato e libero, tra ciò che è e ciò che è assente.
Nel primo avvicinamento spaziale all’opera si hanno queste due situazioni spaziali in modo separato: quella del pieno che si svuota in diagonale e quella del vuoto che si riempie con vari volumi differenziati, ma il tema
più interessante di quest’opera è che finisce con il concentrare i due modi in uno, in maniera consecutiva e complementare. Primo, il volume esterno sembra come un pieno prismatico e nitido nel vuoto della città. Secondo, questo pieno si scava con uno spazio interno centrale che va a costituire il cuore dell’edificio. E, terzo, questo vuoto si occupa a sua volta con quattro colonne di grande dimensione. Riempire per svuotare, svuotare per riempire, respirare per espirare.
Altro grande tema dello spazio architettonico è la scala o la relazione tra le dimensioni dell’uomo e il progetto (e le sue parti). Relazione che fa imprescindibile e insostituibile la presenza fisica dell’uomo negli spazi per sentirli e capirli.
Qui si produce un gioco di scala multiplo ed intenzionale. Multiplo perché si contrappone costantemente; e intenzionalmente perché è organizzato per produrre uno spazio dove l’immaginazione e il sogno siano i protagonisti. Così, l’immaginazione partecipa nel contrasto che si crea tra ciò che ci si aspetta e ciò che sembra, tra ciò che si intuisce e ciò che si trova.
Per esempio, dall’esterno, costruito con buchi di ombra di dim. 2,70×2,70 m, nulla ci indica lo spazio interno che nasconde e
sorprende. Per il lato del sogno, questo spazio è insieme grande e piccolo. Appartiene alla città e, insieme, all’uomo.
Sarà perché le colonne suggeriscono una scala enorme, ma, al tempo stesso dividono lo spazio in una scala minore dove il visitatore si riconosce. O sarà forse che la pelle che circonda lo spazio recupera, da una parte, la scala umana attraverso la sovrapposizione dei solai e dall’altra la dissolve, su due lati, con la facciata continua di alabastro. Sia per ciò che sia, in quest’opera si contrappone la scala umana con la dimensione superiore che invita a volte alla concentrazione e alla dispersione confrontandosi così con una realtà che ci trascende.
Apprezzo
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il concetto di “luce strutturale”, nel senso di convivenza tra luce naturale e organizzazione strutturale dell’opera, rispetto a quelle opere dove i due elementi non dialogano. In questo modo, coincide lo sforzo della presenza con il beneficio dell’assenza. Lo spazio generato dalla struttura si trasforma in uno spazio attraversato dalla luce. In questo modo la materia è qualcosa che dipende dalla struttura: quella si dispone in modo che costruisca l’altra. Si realizza per poter smaterializzare, si riempie per poter svuotare.
La Cassa Generale di Granada costruisce questa relazione con grande semplicità e naturalezza. Come succede nelle grandi opere: con una semplicità disarmante.
Si parte da una cassa di cemento perforata, concentrando la materia laddove è necessaria, nella facciata a mezzogiorno e sulla superficie di copertura; poi siccome questo piano ha bisogno di sorreggersi si predispongono le colonne centrali; poi l’altezza delle colonne fa si che queste debbano essere resistenti al carico di punta e allora si costruiscono a sezione circolare di 3,30 m di diametro e 0,33 m. di spessore.
La struttura in cemento è così, una costruzione allo stesso tempo cassa e dolmen, contenitore e contenuta, comprendente e compresa.
La presenza del cemento, che rappresenta la fisicità di un materiale opaco e rotondo, è contrastato e potenziato, poi, da altri materiali translucidi e trasparenti. Si percepisce, così, al tempo stesso il massiccio, il fluido e l’etereo: il tutto in relazione con la luce.
Molte volte ci scordiamo che la luce dentro un edificio è una sommatoria di fasci luminosi inclinati che ruotano nell’arco del giorno. Senza dubbio, in questo edificio, tutti i suoi elementi costituenti, pieni, vuoti, scala, struttura e materiale, si compongono e ordinano intorno all’angolazione e rotazione della luce. Non è che lo spazio sia differente e la luce lo attraversi in diagonale, come succede di solito, ma è lo spazio che si fa diagonale per ricevere la luce: come dire che lo spazio si fa luce. Così, anche se si parte da uno spazio cubico centrale, questo si orienta, poi, sulla sua diagonale. La pianta si configura con due elle di spessore differente, una di 3 moduli e l’altra di 6. La prima è a nord, la seconda a sud. E’ centro e diagonale, statico e dinamico. Dallo spazio centrale un solaio sale e l’altro arretra seguendo la stessa inclinata; mentre la facciata libera si mantiene tesa e translucida pronta come chiusura.
Le colonne che sono centrate nel volume principale rimangono decentrate rispetto lo spazio principale verso la campata di maggiore dimensione. E’ come se avanzasse per anticiparsi a raccogliere la luce invece di aspettarla impassibile. I lucernai, a loro volta, si collocano anche loro in modo decentrato rispetto allo spazio centrale per raggiungere il massimo percorso possibile della luce; il giro della luce nello spazio si realizza in senso inverso a quello che realizza il visitatore entrando nell’edificio producendo in tal modo un incontro-confronto nello spazio tra il sole e l’uomo, generando quasi la percezione del mondo, il nostro mondo, quello che si muove.
Come in un’alba.
Prof.Arch. Alberto Morell Sixto.
Escuela de Arquitectura de Madrid
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