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Palazzetto Bianco  a Roma

Il Palazzetto Bianco

Set fotografico

“Palazzetto bianco” di Paola Rossi e Massimo Fagioli
anno di progetto : 1990/1991
anno di realizzazione: 2004/2005

Credits
Committente: privato
Progetto: Paola Rossi e Massimo Fagioli
Località: via di S.Fabiano, Piccolomini. Roma

Collaborazioni
al progetto: Françoise. Bliek
alle elaborazioni grafiche: F.Bliek, L.Bocchini, S. De Marsanich
Rendering: Maria Grazia Longo, Riccardo Moschella
Fotografie: Claudio Palmisano, Andrea Calabresi, Riccardo Moschella, Nico Marziali

Scheda tecnica
Superficie del lotto: mq 895,14
Area di sedime: mq 166,00
Superficie coperta f.t.: mq 825,99
Parcheggio interrato: mq 538,23
Area libera: mq 729,14
di cui a verde: mq 675,14
Volume: mc 2682,59

L’uomo che pone all’esterno di sé qualche cosa di reale e materiale realizza il passaggio da un’idea, ovvero da una realtà interiore, ad una cosa ovvero ad una realtà materiale esterna.

Il rapporto che l’architetto compone in questo modo con l’esistente o più ampiamente con il mondo naturale configura una dinamica per la quale la proposta di aggiungere qualcosa di nuovo al già dato comprende una dimensione di trasformazione che, come è noto, fonde insieme la distruzione e l’eliminazione di qualche cosa nel porre nel mondo qualche altra cosa che prima non c’era.

Il dramma di non riuscire a vedere nel costruire il rinnovamento di qualcosa che va perduto, porta alla paura della bellezza insita nelle immagini perché essa avrebbe in sé la prepotenza dell’eliminazione degli altri. Massimo Fagioli ; “Il coraggio delle immagini” premessa al catalogo omonimo; NER 19952

Palazzetto Bianco di Massimo Fagioli e Paola Rossi

Il “palazzetto bianco” è frutto di uno strano connubio tra uno psichiatra e un architetto: Massimo Fagioli, psichiatra ed artista e Paola Rossi, architetto.

Il progetto fa parte di una ricerca collettiva culturalmente unica che ha indagato sulle radici del processo creativo in architettura e delineato un itinerario ricco di suggestioni tra architettura e linguaggio. Gli oltre settanta progetti, realizzati da architetti italiani su idee e disegni di Massimo Fagioli nel corso della ricerca, sono pubblicati sul catalogo “Il coraggio delle immagini” e sono stati esposti in una mostra inaugurata da Oriol Bohigas a Barcellona nel 1994 e allestita successivamente in varie capitali da Tunisi a Praga, da Roma a Osaka e Tokio.

Il “palazzetto bianco”, un’architettura, quasi una scultura, progettato nel 1990, vede la luce soltanto nel 2005, a causa di interminabili e complesse problematiche urbanistiche e giuridiche. L’edificio si colloca nel quartiere Piccolomini, in un ultimo tassello edificabile a completamento di un pezzo di città definito dal vecchio piano regolatore di Roma ” zona edificabile a villini e palazzine”. In questo senso il progetto doveva necessariamente corrispondere all’impianto della tipologia a palazzina, che si impose a Roma nei primi decenni del 1900 e disegnò, per sommatoria, tutti i quartieri della Roma moderna.

Il progetto prevede due prospetti sostanzialmente differenti: l’uno, sul fronte strada, segnato esclusivamente dall’apertura delle finestre e dall’entrata, corrisponde alla zona notte; l’altro, che affaccia sul pendio trattato a verde, costituito da una superficie completamente finestrata, solcata da terrazze continue lungo tutto il suo sviluppo longitudinale e progressivamente aggettanti dal basso verso l’alto, corrisponde alla zona giorno.

Luigi Prestinenza Puglisi intervista Paola Rossi; da n. 41-2005. LE INTERVISTE DI PresS/Tletter.

Ci vuoi parlare della tua collaborazione con Fagioli? In che modo architettura e psicanalisi possono convivere?

E’ proprio di questi giorni una riuscita importante della mia collaborazione con lui: il Palazzetto bianco è di fronte agli occhi di tutti in via S. Fabiano nel quartiere Piccolomini.

Partecipo ai seminari di Analisi collettiva di Massimo Fagioli dal 1982. Nel 1985 Fagioli mi chiese di realizzare la ristrutturazione della sede dei seminari e di colpo mi trovai di fronte ad un cimento impossibile e affascinante insieme: perché il luogo di quel setting era qualcosa di assolutamente rivoluzionario. Solo nel rapporto con lui ho potuto progettare una forma architettonica che potesse rappresentare e contenere l’Analisi collettiva. Nell’agosto 1986 abbiamo realizzato la ristrutturazione della sede in via di Roma Libera.

“Le realtà psichiche si avvicinavano l’una all’altra per fondersi in una struttura intera che rappresentava la curva continua di un legno unico ricavato da un albero impossibile” ha scritto Fagioli nella quinta premessa al suo libro “Teoria della nascita e castrazione umana” nel 1989 . Così ho capito di essere riuscita e di avere scoperto una fonte inesauribile di immagini!

Ma tutto questo è storia, Fagioli nel 2001 ha completamente trasformato, ampliandolo, il setting di via Roma Libera.

Esiste una scuola ispirata al pensiero di Fagioli? Ci vuoi citare alcune opere?

Qui a Roma ci sono alcune opere pubblicamente visibili e vivibili da tempo: la libreria Amore e Psiche, inaugurata nel 1992, il restauro di un palazzetto nel centro storico di Roma, in via S. Andrea delle Fratte ultimato nel 1996, le due sculture-fontane di Largo E. Rolli e di piazza N. Cavalieri, entrambe ultimate nel 2000 e infine il Palazzetto bianco. E poi tante altre opere private. Tutti questi progetti , realizzati insieme agli architetti sono anche stati esposti in una mostra che ha toccato le maggiori capitali del mondo dal ’93 al ’98.

Ma non esiste ne è esistita una scuola in senso accademico.

Possiamo piuttosto parlare della ricerca, unica nel suo genere, di un gruppo di architetti nei riguardi di una straordinaria fonte di idee e di immagini. Abbiamo vissuto una esperienza certamente fuori dal comune assieme allo psichiatra dell’analisi collettiva, che con noi ha ideato, disegnato, plasmato, raccontato, composto.
Questa ricerca, che ha indagato sulle radici del processo creativo in architettura e ha delineato un itinerario ricco di suggestioni tra architettura e linguaggio, si rapporta alla teoria innovativa dello psichiatra, ma anche alla realtà umana di Fagioli che non ha avuto paura di rispondere a chi gli chiedeva … il coraggio delle immagini.
E dal 1998 stiamo a guardare e direi “studiare” questo uomo particolarissimo che continua a ideare disegnare progettare, ormai senza “il nostro aiuto”. Pochi giorni or sono è stata installata una sua opera, la Scultura blu nel cortile della Facoltà di Studi Orientali, nel cuore dell’Esquilino.

Inconsueta e sorprendente

di Franco Purini

Con una efficace intuizione critica Paolo Portoghesi aveva scritto qualche anno fa che la palazzina romana è paragonabile a un sonetto. Come quella particolare forma poetica, rigorosamente codificata ma capace di prestarsi ad una infinità di espressioni diverse, anche la palazzina, pur essendo essa stessa estremamente canonizzata nei suoi caratteri tipologici e nel suo vocabolario formale, consente infatti inesauribili possibilità di produrre variazioni al punto che soltanto in ogni sua singola articolazione essa si fa pienamente riconoscere. Un piano terra che può ospitare appartamenti o garage più quattro piani e un atrio; una scala che distribuisce due o a volte tre alloggi per piano, in qualche caso sfalsati; una copertura piana o a tetto una serie di balconi i quali, oltre a dotare gli alloggi di uno spazio aperto sull’esterno, movimentano plasticamente un volume di solito quadrato o quadrangolare, spesso dinamizzato da andamenti planimetrici irregolari, con superfici disposte secondo angolazioni inclinate rispetto all’ortogonale: sono questi gli elementi base di questo tipo edilizio, un principio organizzativo tradotto in un edificio il quale, ripetuto migliaia di volte, ha costituito la principale materia architettonica per l’espansione di Roma nel secondo dopoguerra. Costituita da un elemento di casa in linea, ma con le pareti terminali forate da bucature, la palazzina è un tipo talmente molteplice nelle sue singole espressioni da dissimulare le sue stesse costanti generiche. C’è da aggiungere che la palazzina prevede anche schemi distributivi più grandi e complessi nei quali due scale servono quattro alloggi. In questi schemi i bagni e le cucine affacciano su chiostrine interne. I migliori architetti romani del Novecento hanno saputo fornire interpretazioni magistrali di questo tema, declinato sia nei termini di un rigore manualistico, seppure ispirato, sia in quelli di una immediatezza di scrittura risolta in configurazioni disinibite e imprevedibili, spesso gestuali fino all’arbitrarietà. Marcello Piacentini, Mario Ridolfi, Wolfang Franke, Adalberto Libera, Pietro Aschieri, Gino Capponi, Luigi Moretti, Saverio Muratori, Ludovico Quaroni, Eugenio Galdieri, Pietro Barucci, Davide Pacanowsky, Carlo Aymonino, Mario Fiorentino, Luigi Pellegrin, Claudio Dall’Olio, Ugo Luccichenti, Bruno Zevi,Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti, Francesco Berarducci, Paolo Portoghesi rappresentano i capofila di una foltissima schiera di ottimi progettisti che hanno lasciato nel tessuto urbano architetture di grande significato.

La città delle palazzine è una città positivamente contraddittoria. Per molti versi essa è fortemente omogenea, essendo costituita da elementi edilizi simili inseriti in un contesto in cui la presenza del verde che circonda su quattro lati il volume è particolarmente importante; per l’altro la differenziazione tra una palazzina e l’altra dà vita ad un ambiente urbano pieno di episodi singolari, di accensioni individuali linguistiche, che fanno sì che ogni strada acquisti un carattere peculiare. Per qualche decennio, soprattutto da parte degli urbanisti di sinistra, la palazzina è stata accusata di negare con il suo individualismo l’essenza della città come costruzione collettiva che doveva esprimere tale natura solidale e unitaria tramite manufatti di scala più ampia, destinati a consistenti comunità di abitanti, manufatti coordinati in un disegno urbano fortemente gerarchizzato. Solo da qualche anno questa opposizione, simboleggiata dalla gigantesca diga del Corviale allineata sul bordo della città ad arginare la marea delle palazzine, è stata superata anche per merito di studiosi come Giorgio Muratore, Alessandra Muntoni e Luca Ciancarelli. Critici e storici hanno cominciato da allora a leggere il ruolo e le vicende della palazzina romana con occhi nuovi, cogliendo proprio in quella combinazione di regole ed eccezioni, già messa in evidenza da Paolo Portoghesi, il segno di una intrinseca e necessaria versatilità architettonica e urbana.

Paola Rossi fa parte da anni di quel gruppo di architetti-artisti riuniti attorno a Massimo Fagioli, una numerosa e attiva comunità che si è distinta per una indiscutibile capacità inventiva, per una sicura attitudine alla sperimentazione e per una notevole originalità nel pensare e costruire l’architettura al di fuori di ogni tendenza consolidata. Massimo Fagioli è una figura centrale nell’attuale panorama culturale, non solo romano e nazionale. Psicanalista eversivo, estraneo all’accademia, egli ha cercato di infrangere le ferree e statiche liturgie post-freudiane proponendo al posto della singola analisi un lavoro interpretativo esteso a più persone, successivamente coinvolte in una serie di impegnative attività culturali. Architetto anch’egli per vocazione e volontà ma anche designer, artista, regista cinematografico, animatore culturale, Massimo Fagioli ha creato una situazione assolutamente unica nel dibattito contemporaneo, anche se molto controversa e per di più di un motivo fraintesa. Una mostra di qualche anno fa, “Il coraggio delle immagini”, aveva dato a lui e al suo gruppo l’occasione di dimostrare quanto una concezione profonda e anticonvenzionale dell’attività creativa potesse liberare impensate possibilità di estrarre dall’inconscio un mondo di forme fluenti e metamorfiche, dalle quali l’architettura poteva in qualche modo intraprendere un nuovo cammino. La mostra, riproposta in più sedi, anche all’estero, ebbe un vasto e giustificato successo. Le architetture esposte nella mostra si distinguevano per le loro forme inconsuete e sorprendenti, animate da una ricerca totalmente indenne da obblighi istituzionali e da tributi a teorie correnti, anche se prestigiose, e a modalità compositive consolidate.

Il “Palazzetto Bianco” di Massimo Fagioli e Paola Rossi con la collaborazione di Françoise Bliek, progettato agli inizi degli anni novanta ma realizzato solo recentemente, è una sorta di manifesto costruito di questo gruppo. Si tratta di una piccola palazzina edificata a Roma in Via di San Fabiano, su un esiguo lotto di forma triangolare. Questa costruzione di dimensioni contenute ma dall’aggressiva presenza nello spazio urbano è l’ottimo risultato di un esperimento limite nel quale confluiscono più motivi. In esso si ritrovano infatti, ma senza alcun cedimento citazionista, memorie wrightiane, fermenti neoespressionisti, intenzionalità scultoree, spunti decostruttivisti, plusvalori concettuali, ascolti attenti del contesto. Disegnata con encomiabile sapienza compositiva e con una grande attenzione per gli aspetti funzionali, questa architettura è investita da una energia formale che la modella potentemente creando torsioni, deformazioni, tensioni topologiche. Dispositivo a reazione luminosa l’edificio si organizza in elementi distinti i quali, nella loro autonomia formale si pongono come nuclei visivi coordinati in un sistema nello stesso tempo composto e unitario. Rifiutando della palazzina il normale rigirare delle facciate su quattro lati il “Palazzetto Bianco” reagisce all’intorno differenziandosi nettamente nelle sue parti. Nettamente articolato in due parti in qualche modo figurativamente irriducibili, la parete inflessa punteggiata da piccole bucature che esalta la sua concavità con uno scatto terminale e il prospetto stratificato segnato dall’orizzontalità dei grandi balconi anch’essi compresi in sezione all’interno di una curva; coronato da una scala che finisce contro il cielo, il “Palazzetto Bianco” dimostra che la palazzina non ha ancora concluso il suo ciclo storico, essendo ancora in grado di dare vita a esemplari densi di novità e di poesia. Con la sua forma a cuneo, che evoca la contundente dirompenza visiva di un frammento di Lisitsky così come la prua di una nave che solca il suolo urbano questa architettura dimostra come anche in spazi interstiziali apparentemente marginali, sia possibile costruire un frammenti bellezza urbana. Dotata della rara attitudine a perseguire un sogno con quella concretezza che sfida il tempo e sa imporsi alla realtà, Paola Rossi rivela che non sono sempre le grandi opere quelle che segnano i momenti più significativi dell’evoluzione delle città, quei punti di flesso nei quali essa dimostra di saper ripensare radicalmente la propria immagine.

Il Palazzetto Bianco di Paola Rossi. Un contributo alla recente architettura urbana romana.

di Michele Costanzo in Metamorfosi n°58 del gen/feb 2006

Il Palazzetto Bianco, sorge lungo una delle strette strade che tagliano trasversalmente il costone della collina Piccolomini che guarda in lontananza San Pietro. E’ un’opera originale per la soluzione formale che propone e per il percorso intellettuale, assolutamente non convenzionale, che ha portato alla sua configurazione.

Il progetto è, infatti, frutto della collaborazione tra uno psichiatra, Massimo Fagioli e un architetto, Paola Rossi. Da diversi anni Rossi è impegnata ad approfondire gli sviluppi di una tendenza non secondaria che anima il dibattito culturale in campo architettonico riguardante la ricerca di un nuovo vocabolario di segni finalizzato a rinnovare, o semplicemente ampliare la gamma di espressioni progettuali. Tale indirizzo tende a misurarsi, in maniera dialettica, ora con forme naturali, ora astratte, ora provenienti dall’inconscio. Tra il 1986 e il 1995 si è formato a Roma, un gruppo di ricerca in campo architettonico sotto la guida di Fagioli.

Gli esiti del lavoro introspettivo sviluppato, finalizzato ad arricchire, potenziare la capacità creativa dei partecipanti, è stata raccolta nel catalogo “Il Coraggio delle Immagini”. I progetti realizzati dagli aderenti al gruppo di lavoro, sulla base di idee e proposte dello psichiatra romano, hanno dato origine ad una mostra (patrocinata dal nostro Ministero degli Esteri) che dal 1993 al 1998 ha toccato numerosi paesi del mondo.

L’idea del Palazzetto Bianco, che solo ora trova finalmente conclusione dopo aver percorso un cammino particolarmente accidentato, nasce da tale importante esperienza. Il cui punto d’avvio concettuale potrebbe essere individuato, tra le numerose e complesse riflessioni di Fagioli, nella seguente osservazione: “L’architetto costruisce [...] prima ancora di immaginare, nel rapporto materiale e diretto di se stesso con l’ambiente e con la natura, senza immaginare nella separazione di se stesso dagli altri e dalla natura come fa l’artista; egli compone il mattone nell’erba la trave accanto all’albero e, nel comporre e armonizzare le cose e gli elementi che lui sceglie, fa sì che l’immagine derivi da quanto ha composto manualmente senza aver prima sognato la bellezza.

L’ipotesi di lavoro è che il linguaggio dello psichiatra ha la capacità di modificare la realtà umana come quello dell’architetto la realtà esterna. “Accade così che noi siamo obbligati a fare una ricerca su un linguaggio, quello appunto modificatore della realtà umana [...]. Accade inoltre che sviluppando questa ricerca siamo obbligati a considerare ed evidenziare non semplicemente le immagini coscienti e le figure definite, ma anche le immagini che dobbiamo definire inconsce che si rappresentano nell’ideazione dell’architetto.

Conseguentemente l’inconscio interviene nella realtà e, questo, è un pensiero completamente nuovo ed originale: non è stato mai ammesso infatti dal pensiero umano cosciente che l’inconscio possa intervenire e addirittura determinare quella attività che conduce alla sopravvivenza, prima nella costruzione che permette l’abitare, alla vita stessa poi, nel momento in cui l’arte del costruire non si riduca all’utile meccanico e razionale, ma comprenda anche le dimensioni di bellezza e piacere”.

L’opera di Rossi, non solo riflette l’impianto ideale e scientifica a un tempo di Fagioli, ma ha altresì la capacità di materializzarsi nella ristretta area di sedime a disposizione in maniera distintiva e coinvolgente. L’idea su cui si basa è quella di un’alta parete che come un foglio di carta si piega, si curva morbidamente, quasi seguendo l’andamento della strada.

Si tratta di un robusto setto cementizio traforato a più livelli da una sequenza di finestre quadrate. Il colore bianco brillante del rivestimento riduce la percezione della massa e lo rende astratto; la duplice curvatura, inoltre, trasmette il senso di un invito che annulla il senso di chiusura, di barriera rispetto alla volumetria retrostante dominata da una sequenza di balconi su cui si aprono pareti totalmente finestrate che enunciano un intento organizzativo dello spazio teso a determinare un genere di alloggio aperto, in diretto contatto fisico/percettivo con l’esterno naturale che è immediatamente di fronte.

La zona notte è la parte della casa difesa dalla grande parete-prospetto, la zona giorno è quella che si rivolge verso la natura. La pianta dell’edificio, pur nella difficoltà organizzativa del suo sviluppo triangolare, riflettere tale impostazione. Ogni piano ha due appartamenti che derivano dalla scansione creata da un nucleo centrale (composto da pianerottolo, scala e ascensore) che a piano terra trova lo spazio dell’atrio, segnalato all’esterno da un ‘drammatico’ taglio praticato alla base del monumentale prospetto ricurvo.

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